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Nikolaj Vavilov ha dato la vita per garantirci la biodiversità: la scienza deve servire l’umani…

Cosa succede quando la scienza è asservita alla politica? La storia di Nikolai Ivanovich Vavilov può raccontarlo. Agronomo, botanico e genetista russo, oggi è considerato uno dei più grandi scienziati della storia del mondo. La sua intuizione visionaria di una vita dedicata alla scienza fu quella di utilizzare la biodiversità e la genetica per nutrire il mondo. La sua fine arrivò in una prigione stalinista, dove morì di fame e di fame.

Nicolaj nacque a Mosca nel 1887, studiò agronomia all’Istituto di Agricoltura di Mosca e si laureò con una tesi dal titolo che già anticipava quella che sarebbe stata la missione della sua vita: “Genetica e agronomia”. È il 1912, la parola “genetica” è ancora semi-sconosciuta nella comunità scientifica, figuriamoci fuori, nella classe dirigente e tra la gente comune.

Andò a studiare prima a Cambridge con William Bateson, colui che coniò la parola “genetica” (dal greco “genno”, γεννώ; dare origine) nel 1905, poi a Parigi e Vienna, prima di tornare a Mosca. Nel frattempo il mondo è cambiato. L’impero degli zar fondato da Pietro il Grande finì dopo quasi duecento anni.

Nikolai Vavilov, la scienza al servizio dell’umanità

La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 portò al potere i bolscevichi. Una destabilizzazione che ha accentuato carestie, fame e caos in un territorio sconfinato che deve riorganizzarsi. Ma la caratteristica peculiare del carattere di Nicolaj è quella di non perdersi d’animo.

Il suo progetto è quello di creare incroci di piante destinate all’alimentazione (grano, verdura, frutta) capaci di crescere e produrre in qualsiasi condizione ambientale, capaci di nutrire il popolo russo e tutti i popoli del mondo.

Con l’incrollabile convinzione che la scienza debba mettersi al servizio dell’umanità, iniziò un periodo di spedizioni in tutto il mondo alla ricerca di semi e varietà autoctone dalle caratteristiche più diverse con l’obiettivo di creare una banca dei semi e studiare geneticamente ciascuna varietà, per poi creare croci e metterle in produzione.

I dieci anni successivi sono quelli dell’epica: compie più di cento spedizioni in più di sessanta zone del mondo, dall’Afghanistan, a Bukhara, al Pamir all’Argentina all’Eritrea, passando per Taiwan e l’Algeria alla ricerca di varietà di piante lì dove nacque l’agricoltura e attorno ad essa si erano sviluppate le prime civiltà. Ovunque raccoglie semi e li invia all’istituto che dirige a Mosca, per poi riprodurli e studiarli.

L’ombra della genetica sotto Stalin

Quando Lenin muore e gli succede Stalin, le cose cambiano. Ecco l’ossessione per l’ortodossia marxista, davanti alla quale anche la scienza deve chinare il capo. Per gli scienziati, e non solo per loro, anche la sola origine borghese è una colpa da espiare, e la genetica è vista con sospetto, come un’astrazione, una speculazione, una perdita di tempo che ostacola la necessità di incrementare al meglio la produzione agricola. L’URSS per nutrire i suoi cittadini.

Si creano due fronti: i seguaci di Mendel, precursore della genetica moderna per le sue osservazioni sui caratteri ereditari, e i sostenitori delle teorie di Lamarck, secondo cui i cambiamenti che un organismo subisce nel corso della sua vita diventano ereditari e si trasmettono alla progenie. Stalin non sa nulla di agronomia ma è ideologicamente, ciecamente lamarckista. Vavilov, però, sa che il futuro della scienza risiede nel lavoro indicato da Mendel. Quasi all’improvviso appare la figura oscura di Trofim Denisovič Lysenko, “il contadino scalzo”. Con scarsa competenza scientifica, riuscì comunque a farsi notare dal regime per i suoi esperimenti sulla “vernalizzazione”, sostenendo scoperte inesistenti o inefficaci.

La cecità del regime e le epurazioni staliniane fecero il resto: Nicolaj Vavilov, che era stato direttore di gran parte degli istituti agronomici sovietici, fu retrocesso per fare posto a Lysenko, appoggiato direttamente da Stalin, che molto probabilmente avrebbe scritto i suoi discorsi. Ciò che lo animava era la spregiudicatezza, l’ambizione e l’odio di classe verso gli scienziati, colpevoli di essere borghesi e di aver studiato.

La genetica di Mendel è ormai una pseudoscienza borghese

La genetica classica di Mendel è oggi considerata “pseudoscienza borghese”. L’NKVD, la polizia politica, attiva un’attività di dossier contro Vavilov, sospettato di attività antisovietica e di collaborazione con potenze straniere finalizzata alla distruzione dello Stato socialista e al ritorno degli zar.

Era il 1941 quando venne arrestato e condannato a morte. L’anno successivo, quando nella comunità scientifica internazionale comincia a diffondersi il sospetto che la sua vita sia in pericolo, viene eletto membro straniero della prestigiosa Royal Society, ma probabilmente non lo saprà mai. Ciò, però, fa sì che la sua pena venga commutata in vent’anni di reclusione.

Il durissimo regime carcerario non gli permetterà di fuggire vivo: morirà nel 1943, indebolito nel corpo e nello spirito, il 26 gennaio 1943. L’uomo che voleva sfamare il mondo muore di fame in una fetida prigione sovietica a Saratov, ucciso dall’odio di classe e dalla cecità delle teorie antiscientifiche sposate in maniera strumentale dal più grande Paese socialista del mondo.

La sua riabilitazione avverrà ad opera del successore di Stalin, Nikita Kruscev, nella sua opera di destalinizzazione. La sua eredità resta nelle circa mille banche del germoplasma sparse nel mondo, alle quali è affidato il futuro della biodiversità vegetale, e quindi quello del pianeta e di chi lo abita.

Il dramma non fu quindi né vano né fine a se stesso, perché da quell’evento drammatico nacque non solo un’eredità morale, ma anche un grande patrimonio fecondo e tangibile. Una risorsa a cui aspirare collettivamente. Il prezzo da pagare per Nikolaj Vavilov è stato quello di rinunciare alla vita stessa, ma con l’epilogo eroico e rivoluzionario, tipico di chi sa scandire la storia.

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